Giudizio Universale
Ne conto cinque
una per ogni dito
pietre che lancio
diluviando sogni e grandine.
Su di me.
Ne conto cinque
una per ogni dito
pietre che lancio
diluviando sogni e grandine.
Su di me.
Ormai è inevitabile come il
respiro, qualcosa che faccio
ed esisto: ingoio e
trabocco, ingoio e trabocco.
All’infinito. Sempre e soltanto
ascoltando l’eco delle lancette
sbattere fortissimo
contro il muro.
Me ne sto minuscola particella
alla fine del rewind
braccia, mento e pugno al petto.
Intanto il vento dietro passa
e spassa
a volte aiuta, lo ammetto.
Altre volte ammazza.
Da qualche parte
qualcuno brucia sigari e vite.
Altri forse sbadigliano
e magari fosse per la noia
e fuorionda, io
dietro tutto questo andare
che ostinavo la fretta delle madri sui talloni.
E Achille, banalmente,
era tutta un’altra storia.
Conto le mosche
che mi girano sulla testa.
Quelle pari le lascio
confondersi col ronzio delle mie paure
quelle dispari, invece, le ingoio
ancora vive.
non prima di aver finto
di averle ascoltate.
Di certo l’aria era spessa
e inodore, nonostante il cloro.
Eppure si potevano distinguere tutte le pieghe
di te
che sei andata di nocche ruvide e vere
su questi fogli.
E me ne hai insegnato il nome.
Ci sarebbe da dire, da fare.
Tuttavia il bicchiere a tavola
è ancora mezzo pieno
mezzo vuoto
e le lancette battono la lingua
sul solito dente.
Aspetterò il tempo necessario
alle anidridi di non avvelenarmi
e poi ogni cosa tornerà dove era prima.
Inutilmente.
lo conosco bene il silenzio
lo conosco benissimo
come è vero che i rami divergono
e finiscono col perdersi
dentro la mia
___________dentro la tua
bocca.
Succede all’improvviso come la pioggia
quando le previsioni hanno sbagliato tutto:
un ombrello che dimentichi a casa
le scarpe sbagliate
nessun riparo a consolare.
E quell’assenza che diluvia
gli occhi. Inesorabile.
C’è un luglio millenovecentonovantanove
in questo tramonto sfilato
sulle spalle di lino nero
l’orto di mia zia fresco di limoni e di basilico
mia madre, lou-lou, oui c’est moi, dietro le orecchie
mio padre in grigio perla di cravatta
e i miei occhi, gli ultimi dietro l’obiettivo
di una bambina che non ha più ginocchia
da sbucciare.
Già cadono
e questo è il fatto
anche se il sole imbroglia
le carte sul tavolo
loro – maledette foglie –
già cadono
anche se la formica ancora cerca
briciole di fame
e l’orso gioca nei silenzi della controra
loro – disgraziatissime
già cadono
E’ che mi ero lasciata distrarre
dalle abitudini, dai soliti spari
le solite guerre
e – semplicemente – non realizzavo
che il grillo ormai tace
se non per dire
.addio.
sempre mentre loro,
stramaledette loro, inesorabili,
già cadono
Ho parole al macero nella bocca
parole che ti cercano ma non ti trovano
e finiscono col tornare indietro
con la coda tra le gambe.
Disarmate e sole.
Un vuoto che germoglia silenzi
e cresce. Sempre tacendo.
Una macchia d’olio si espande
mangiando i margini
e tutte le appendici
Ricordo che c’era un vaso sulla mensola
qualcosa che non cadeva
se non respiravi
e fiori di plastica ovunque
– casomai la sete –
Eppure il vuoto allarga le bocca
e si mangia viva ogni carezza rimasta. E resta.
Sembra una mattina qualunque
quella di oggi
un sole d’inverno mezzo sbiadito
che quasi piove
Ma se guardi le finestre
vedi che stanno tutte
con la bocca chiusa
e gli alberi sembrano stanchi.
Il coraggio – si sa –
è una questione di sintesi.
Deve essere morto qualcosa
che stava dentro il cuore a tutti.
Come un sogno.
Accade anche alle migliori città.
Io anche, ho avuto un uomo
che ha fatto fare la stessa fine
ai miei.
Colpa mia che ci avevo creduto
e di quelle fioriere – eterne
come un paradiso.
Non sai mai cosa ti riserva una strada.
Così, mentre andavo,
che la luce si faceva scura,
ho trovato la pace dei mignoli
dentro una vetrina:
aveva preso le sembianze di un vestito
annisettanta
come quelli di mia madre, giovanissima
e io dentidilatte, capelli lunghilunghi,
un cavalluccio rosso, anzi, due
e se conto fino a venti faccio tana e
“ah! se vi prendo!”
Un vestito, dicevo
ultimo in saldo, ultimo giorno,
ultima taglia. Così, l’ho comprato
cinque euro e passalapaura e
l’ho chiamato speranza
perché adesso non mi va,
ma se dimagrisco …
Ho sempre trovato grande conforto
nelle geometria:
un quadrato di casa
il cerchio perfetto di un abbraccio
una retta da percorrere
che diventa un luogo
se compreso fra due suoi punti.
Tuttavia succede che la geometria
sia altrove
e allora, niente, mi accontento come posso
e spesso conto
uno due tre quattro
e ricomincio, all’infinito
tanto che se ne sentirebbe l’eco
se almeno qualcuno mi fosse prossimo
o vicino.
Se non addirittura dentro.
Tuttavia nessuna nuova,
il sistema linfatico
resiste al surriscaldamento globale
con grande dignità,
Certo, senza slancio
e con pochissimo entusiasmo.
Anzi, senza, diciamolo.
Ma sudo e tremo e
piango, ancora.
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