Mi hai lasciato l'eco sulle labbra

E’ stato un attimo naufrago
tra il dire ed il fare delle ore
che vanno e intanto vivo e
ho creduto di vedere di nascosto
il fantasma delle nostre labbra
di stanotte, di sempre, di mai
girare l’ultimo spigolo di strada
e
intanto vivo
parole che non oso
in questo confinarti sulle note
a margine ora che attendo
pupille per aria sostando
sospiri
e intanto
vivo
e tu non negarmi
non rinnegarmi anzi
trascendimi e trascendimi ancora
contrasto di iridi e pelle
ora che tutto va come deve
partire baci di dita alla mano
da tutta me dal treno dal mai
trascorrimi ancora ora
e intanto vivo

Irriverente con sGarbo

Frana di anche bionde

sui divani da costiera di velluto

e sulle nuche impomatate

chanel numero cinque

ubriaca le camelie.

 

E chissà

 

se dietro il sipario muto

di labbra millenovecentotrenta

– tra alibi di palmi sulla fronte

e vele di fazzoletti

tra gli scogli in rosso smalto

al negativo di pellicola –

 

– mi chiedo –

chissà se hanno mai mandato a fanculo la Garbo!

Ultimo passo falso, fuori

appena un primo sole di questo quasi aprile
ero bianca, sotto i passi di neve
e mi sono uscita,
 
ero goccia cigliosa lacrima sudore freddo
nell’inverno di quell’unica foglia rimasta.
evanescente fuga,
 
lutto di un freddo spoglio, ero a pezzi
aria che disgela nelle mani il ghiaccio inutile
di questa mia ennesima assenza,
 
e mi sono tornata.

Le lucciole se ne stanno assenti, la notte

sarà di sbieco che lascerò andare gli occhi

aspettando cornamuse di voci

pioggiare sulla testa

e sempre vuota questa mestizia

incredula, incauta.

 

sulle labbra

scucite saranno tutte le preghiere

un gregge solo al pascolo

ed io la guardia

una carabina sorda, la mia mano

come il buio delle mille lucciole assenti

trapassate e poi risorte, nuove

 

ché uno sparo d’indice,

mi uccise il tramonto invaso alle spalle

– di me che non immaginavo gli angeli –

e provavo a divagare le mani

e poi le mani,

le mani sulla mia voce muta

C'è qualcosa di solo, tra il santo e il blasfemo

Musica di Eiunadi

Il domicilio era un francobollo appena affrancato
tracce di inchiostro simpatico e poi il vuoto.

C’era una volta,
di muschi e licheni, fra il vento e una pausa, la casa.
Era polistirolo il pianto soffiato sui muri.
Era un giocattolo stanco per soli adulti, soli.
Era un soppalco di povere travi lacere e intonaco a pezzi.

La mia pelle era uguale, non a caso, quella, era la mia casa.
E c’erano tarli nel legno con lo stomaco di fame.
C’erano stipiti in lacrime sotto le suole di cuoio.
I mobili avevano un sorriso strano sulla faccia.
Un sorriso immobile.
Fermo.

Come il pianto delle madonne nelle processioni di pasqua.
Niente di irripetibile.
Tutto monotonamente uguale alla vita.

Il resto, lo dico vivendo, dall’alto di questi cuscini di noia
e un bicchiere di veleno sul comodino.

Eredità di silenzi sulle labbra

Eccolo, l’ennesimo specchio
forse il mio sogno spettinato
quasi figlio o mezzo grido
il primo dopo il silenzio
pianto di candela smorzata

Non vedo l’altra tua assenza
inconcepibile girino cieco
bocconi di buio lontano
acque acerbe incontinenti alla deriva
solo spirito, nulla, sei.

Insolente ironia eretica
non esservi carne
o voce
o passo.

E dell’unico possesso che dispongo
ti lascio il muto ghigno sordo, affranto
scellerata evanescenza
l’insostenibile carico di te

come le mie
altre anime che sperpero,
diramo.

se queste nuvole dovessero sciogliersi

Pensavo ai se
di quei se che ti fermi sui bordi
che cammini e ritornano memorie
di aquiloni
nelle dita prensili.

Di quei se 
che hanno il vento di marzo
in testa e ti trovano
ombrello di respiri bucati
se queste nuvole
dovessero sciogliersi
all’improvviso, mille e più
assenze nella sete di sale
sugli occhi
quell’attenderti di
povere stelle

Per quei se
dovendo ancora di niente vivere
se e solo se, questo cielo
dovesse scolorire, un giorno

berrei d’un sorso
tutti i veleni del mondo
in polvere di amnesie
perenni

per dormire
mille vite
ancora

Questo sconfinato evadersi, dentro

poi si evade
dentro i lucchetti seviziati
delle porte, dentro

ché mi è nuova persino
questa muta pelle estranea
come quella che diresti – altra –
andando

non so davvero
dove sia d’anima
questo cuore d’albero
di segni alla rovescia
uno per ogni giorno anulare
frattaglie d’ossa a goccia

direi dismesso
questo risostanco risoamaro
r i s o a m o r e

poi si resta
sempre mani dietro la schiena
e testa alla lavagna, sempre.

Non imparerò mai a giocare con le bambole

Millimetrica sutura

l’abitudine misurata dei respiri

anche una mezza volta di più

sarebbe tachicardia accertata

 

Tuttavia mi storpia

questa omonima sordità tesa

alle ginocchia

sedia barcollante da accomodare

un cuneo nel petto, forse

basterebbe

 

e magari

un appena accenno del capo

tra il dissentire

e promesse di montagne dritte

dritte

 

quando sono solo cieli lividi

quelli che stagno di bambola

r o m p e n d o m i

per poi rivendermi a pezzi

ognuno di me, singolo

 

e magari

un paradiso mi fosse sulle dita.

Le allodole si fanno belle sul mio sorriso affranto

tuttavia invisibili monotonie si fanno iride
percezioni di vuoto i buchi tutt’intorno

improbabili valutazioni
approssimative inflessioni affrante
eco soffiato appena di riso
e labbra tristi tristi

al di là
delle oreficerie spiumate sul dorso
che sfoggio – oro ed odio giallo fieno –
delirio delle allodole le mattine di aprile

e un bicchiere di sete alla mano

Evasione ennesima – Mi resto

mio malgrado,
tralascio i margini
di un foglio zitto
biasimandomi  
carne, ossa, casa,
chiesa di carta e un campanile
che fuma nebbie di zolfo
salmi in lacrima incendiata, dentro
 
cenere che piango
assurda ipocrisia del poco, forse
centimetri imbastiti di silenzio
millimetri di niente
.punti
arrivi, partenze
 
e un treno da lasciarsi alle spalle
dentro sciarpe verdi, consonanti
da fuggire
per non sapermi rotta,
mio malgrado
 
mi resto.

Mi hai lasciato l'eco sulle labbra

E’ stato un attimo naufrago
tra il dire ed il fare delle ore
che vanno e intanto vivo e
ho creduto di vedere di nascosto
il fantasma delle nostre labbra
di stanotte, di sempre, di mai
girare l’ultimo spigolo di strada
e
intanto vivo
parole che non oso
in questo confinarti sulle note
a margine ora che attendo
pupille per aria sostando
sospiri
e intanto
vivo
e tu non negarmi
non rinnegarmi anzi
trascendimi e trascendimi ancora
contrasto di iridi e pelle
ora che tutto va come deve
partire baci di dita alla mano
da tutta me dal treno dal mai
trascorrimi ancora ora
e intanto vivo

Irriverente con sGarbo

Frana di anche bionde

sui divani da costiera di velluto

e sulle nuche impomatate

chanel numero cinque

ubriaca le camelie.

 

E chissà

 

se dietro il sipario muto

di labbra millenovecentotrenta

– tra alibi di palmi sulla fronte

e vele di fazzoletti

tra gli scogli in rosso smalto

al negativo di pellicola –

 

– mi chiedo –

chissà se hanno mai mandato a fanculo la Garbo!

Ultimo passo falso, fuori

appena un primo sole di questo quasi aprile
ero bianca, sotto i passi di neve
e mi sono uscita,
 
ero goccia cigliosa lacrima sudore freddo
nell’inverno di quell’unica foglia rimasta.
evanescente fuga,
 
lutto di un freddo spoglio, ero a pezzi
aria che disgela nelle mani il ghiaccio inutile
di questa mia ennesima assenza,
 
e mi sono tornata.

Le lucciole se ne stanno assenti, la notte

sarà di sbieco che lascerò andare gli occhi

aspettando cornamuse di voci

pioggiare sulla testa

e sempre vuota questa mestizia

incredula, incauta.

 

sulle labbra

scucite saranno tutte le preghiere

un gregge solo al pascolo

ed io la guardia

una carabina sorda, la mia mano

come il buio delle mille lucciole assenti

trapassate e poi risorte, nuove

 

ché uno sparo d’indice,

mi uccise il tramonto invaso alle spalle

– di me che non immaginavo gli angeli –

e provavo a divagare le mani

e poi le mani,

le mani sulla mia voce muta

C'è qualcosa di solo, tra il santo e il blasfemo

Musica di Eiunadi

Il domicilio era un francobollo appena affrancato
tracce di inchiostro simpatico e poi il vuoto.

C’era una volta,
di muschi e licheni, fra il vento e una pausa, la casa.
Era polistirolo il pianto soffiato sui muri.
Era un giocattolo stanco per soli adulti, soli.
Era un soppalco di povere travi lacere e intonaco a pezzi.

La mia pelle era uguale, non a caso, quella, era la mia casa.
E c’erano tarli nel legno con lo stomaco di fame.
C’erano stipiti in lacrime sotto le suole di cuoio.
I mobili avevano un sorriso strano sulla faccia.
Un sorriso immobile.
Fermo.

Come il pianto delle madonne nelle processioni di pasqua.
Niente di irripetibile.
Tutto monotonamente uguale alla vita.

Il resto, lo dico vivendo, dall’alto di questi cuscini di noia
e un bicchiere di veleno sul comodino.