Cronaca di un imperfetto annunciato

Mi faceva uomo l’atlante sulle spalle

il tuttintavola delle quattordici

mia moglie aveva i capelli neri neri.

 

E deve essere stato un attimo

se non ho visto nessuno imbiancarmi la testa

qualcosa sfuggito fra una domenica al technicolor

e il nastro rosso di un dicembre, lucette intermittenti

già coriandoli in tasca questi anni di lepre

Solo, ad un certo punto, era tutto grigio

disamore di asole questi corridoi
figli che non soffiano più candeline

rosa e azzurre e lo zucchero che vela

adesso oblitero la noia alle otto in punto
su un cuscino tutto sudato

Da oggi
così come dico di ogni cosa, ormai
io

ERO.

 

 

Non c'è posto qui, per chi conta dita

Ci sono trasparenze e trasparenze

e i vetri d’acquavite

non sono opachi

 

Somigliano

 

parlo di alibi su una gamba sola

e una mano in testa

 

somigliano, dicevo

all’acqua che scivola sulla sete

delle gole strette e ripide

a strapiombo su una cazzo di valle

qualunque

alla fine del pianto

 

E i sorsi

sono una corsa che perde vocali

nelle pupille sfocate

e barcollanti

 

Si, come l’ubriaco

che ieri mi è venuto addosso

e mi ha detto:

non c’è posto qui

per chi conta dita.

 

Mio fratello mi chiamava -Ciorellina-

aritmetiche asserzioni

pomeriggi studiati

il soggiorno aveva

scrivanie di cristallo

 

o di quando ci facevamo

la pace dei mignoli

– nomi cose città,

"o" come Orchimede – 

le tue labbra appena imbastite

consonanti che muoiono

bisbigliando

 

e mi ricordo una staccionata

fiori che non soffrivano la sete

sinestetiche rose, le mattine

 

l’inverno aveva le ali

sui cappotti – facciamo che

chi arriva prima al cancello

è il più bravo di tutti –

 

facciamo che sia tutta una finta

questo correrci appresso

degli anni

e ricamiamoci addosso

l’ultimo giro di fuoco

da spegnere

le tue e le mie candeline

un anno distanti

 

ché solo i bambini

ci credono ancora e li vedi

rimediare con un bacio

la bua rossa

sul cuore.

Nel nido degli aquiloni alla fine del vento

Lo ricordo bene
era giorno
(o forse notte, visto che la luce faceva quattro copie di me

per terra )
ed era caldo
(o forse era inverno perché stringevo qualcosa tra me e me e non

aveva peso )

e qualcuno
(si uno qualsiasi nella folla in quella piazza

al centro del nulla)
mi diceva che costruiva cattedrali
su cattedrali e che sono alte le gru
tanto che il cielo
lo vedi sbirciare dalle tende
ammesso che non piova
ammesso che non guardi sotto
e il mondo non ha che
cinque dita per mano – nel migliore dei casi

e che le nuvole, sopra
le aveva dipinte lui
a Notre Dame un giorno
che Esmeralda gli disse – ti amo

e poi
si fece buio – all’improvviso –
(o forse un temporale che, non so come, non so quando,

spense le luci )
e lo vidi andare via
nella folla in quella piazza da dove veniva

nel nido degli aquiloni
alla fine del vento.

Un punto prima del silenzio

dispongo due dita di ruggine sulle labbra
svarionate metastasi di un obsoleto sorriso
un dischetto tutto giallo per ammonirmi

ché a forza di ripetermi ho ossa rotte
corollario di ombre in castigo
parole che disanimo singhiozzandomi addosso

e mi torna in mente
quel sogno di naftalina tutto intarlato
una bocca magra e tutto il bene
che di me, ha sempre fatto senza


poi. silenzio

Eredità di silenzi sulle labbra

Eccolo, l’ennesimo specchio
forse il mio sogno spettinato
quasi figlio o mezzo grido
il primo dopo il silenzio
pianto di candela smorzata

Non vedo l’altra tua assenza
inconcepibile girino cieco
bocconi di buio lontano
acque acerbe incontinenti alla deriva
solo spirito, nulla, sei.

Insolente ironia eretica
non esservi carne
o voce
o passo.

E dell’unico possesso che dispongo
ti lascio il muto ghigno sordo, affranto
scellerata evanescenza
l’insostenibile carico di te

come le mie
altre anime che sperpero,
diramo.

se queste nuvole dovessero sciogliersi

Pensavo ai se
di quei se che ti fermi sui bordi
che cammini e ritornano memorie
di aquiloni
nelle dita prensili.

Di quei se 
che hanno il vento di marzo
in testa e ti trovano
ombrello di respiri bucati
se queste nuvole
dovessero sciogliersi
all’improvviso, mille e più
assenze nella sete di sale
sugli occhi
quell’attenderti di
povere stelle

Per quei se
dovendo ancora di niente vivere
se e solo se, questo cielo
dovesse scolorire, un giorno

berrei d’un sorso
tutti i veleni del mondo
in polvere di amnesie
perenni

per dormire
mille vite
ancora

Questo sconfinato evadersi, dentro

poi si evade
dentro i lucchetti seviziati
delle porte, dentro

ché mi è nuova persino
questa muta pelle estranea
come quella che diresti – altra –
andando

non so davvero
dove sia d’anima
questo cuore d’albero
di segni alla rovescia
uno per ogni giorno anulare
frattaglie d’ossa a goccia

direi dismesso
questo risostanco risoamaro
r i s o a m o r e

poi si resta
sempre mani dietro la schiena
e testa alla lavagna, sempre.

Non imparerò mai a giocare con le bambole

Millimetrica sutura

l’abitudine misurata dei respiri

anche una mezza volta di più

sarebbe tachicardia accertata

 

Tuttavia mi storpia

questa omonima sordità tesa

alle ginocchia

sedia barcollante da accomodare

un cuneo nel petto, forse

basterebbe

 

e magari

un appena accenno del capo

tra il dissentire

e promesse di montagne dritte

dritte

 

quando sono solo cieli lividi

quelli che stagno di bambola

r o m p e n d o m i

per poi rivendermi a pezzi

ognuno di me, singolo

 

e magari

un paradiso mi fosse sulle dita.

Le allodole si fanno belle sul mio sorriso affranto

tuttavia invisibili monotonie si fanno iride
percezioni di vuoto i buchi tutt’intorno

improbabili valutazioni
approssimative inflessioni affrante
eco soffiato appena di riso
e labbra tristi tristi

al di là
delle oreficerie spiumate sul dorso
che sfoggio – oro ed odio giallo fieno –
delirio delle allodole le mattine di aprile

e un bicchiere di sete alla mano

Evasione ennesima – Mi resto

mio malgrado,
tralascio i margini
di un foglio zitto
biasimandomi  
carne, ossa, casa,
chiesa di carta e un campanile
che fuma nebbie di zolfo
salmi in lacrima incendiata, dentro
 
cenere che piango
assurda ipocrisia del poco, forse
centimetri imbastiti di silenzio
millimetri di niente
.punti
arrivi, partenze
 
e un treno da lasciarsi alle spalle
dentro sciarpe verdi, consonanti
da fuggire
per non sapermi rotta,
mio malgrado
 
mi resto.

Mi hai lasciato l'eco sulle labbra

E’ stato un attimo naufrago
tra il dire ed il fare delle ore
che vanno e intanto vivo e
ho creduto di vedere di nascosto
il fantasma delle nostre labbra
di stanotte, di sempre, di mai
girare l’ultimo spigolo di strada
e
intanto vivo
parole che non oso
in questo confinarti sulle note
a margine ora che attendo
pupille per aria sostando
sospiri
e intanto
vivo
e tu non negarmi
non rinnegarmi anzi
trascendimi e trascendimi ancora
contrasto di iridi e pelle
ora che tutto va come deve
partire baci di dita alla mano
da tutta me dal treno dal mai
trascorrimi ancora ora
e intanto vivo

Irriverente con sGarbo

Frana di anche bionde

sui divani da costiera di velluto

e sulle nuche impomatate

chanel numero cinque

ubriaca le camelie.

 

E chissà

 

se dietro il sipario muto

di labbra millenovecentotrenta

– tra alibi di palmi sulla fronte

e vele di fazzoletti

tra gli scogli in rosso smalto

al negativo di pellicola –

 

– mi chiedo –

chissà se hanno mai mandato a fanculo la Garbo!

Ultimo passo falso, fuori

appena un primo sole di questo quasi aprile
ero bianca, sotto i passi di neve
e mi sono uscita,
 
ero goccia cigliosa lacrima sudore freddo
nell’inverno di quell’unica foglia rimasta.
evanescente fuga,
 
lutto di un freddo spoglio, ero a pezzi
aria che disgela nelle mani il ghiaccio inutile
di questa mia ennesima assenza,
 
e mi sono tornata.

Le lucciole se ne stanno assenti, la notte

sarà di sbieco che lascerò andare gli occhi

aspettando cornamuse di voci

pioggiare sulla testa

e sempre vuota questa mestizia

incredula, incauta.

 

sulle labbra

scucite saranno tutte le preghiere

un gregge solo al pascolo

ed io la guardia

una carabina sorda, la mia mano

come il buio delle mille lucciole assenti

trapassate e poi risorte, nuove

 

ché uno sparo d’indice,

mi uccise il tramonto invaso alle spalle

– di me che non immaginavo gli angeli –

e provavo a divagare le mani

e poi le mani,

le mani sulla mia voce muta

C'è qualcosa di solo, tra il santo e il blasfemo

Musica di Eiunadi

Il domicilio era un francobollo appena affrancato
tracce di inchiostro simpatico e poi il vuoto.

C’era una volta,
di muschi e licheni, fra il vento e una pausa, la casa.
Era polistirolo il pianto soffiato sui muri.
Era un giocattolo stanco per soli adulti, soli.
Era un soppalco di povere travi lacere e intonaco a pezzi.

La mia pelle era uguale, non a caso, quella, era la mia casa.
E c’erano tarli nel legno con lo stomaco di fame.
C’erano stipiti in lacrime sotto le suole di cuoio.
I mobili avevano un sorriso strano sulla faccia.
Un sorriso immobile.
Fermo.

Come il pianto delle madonne nelle processioni di pasqua.
Niente di irripetibile.
Tutto monotonamente uguale alla vita.

Il resto, lo dico vivendo, dall’alto di questi cuscini di noia
e un bicchiere di veleno sul comodino.

Un giorno che c'era amore

Musica di Einaudi

ci sarebbe stato,
forse un caso, un giorno
che c’era amore
non lo dimentico,
fra ventiquattrore di passaggio
e passeggio di tram
quanto è vera quest’aria
che barcollo
e il monossido sul cuore

ci sarebbe stato
a dirla tutta un vento, altro
che di tramontana sulle labbra
ce n’è sempre troppa
e ancora vele questi anni
che ci sarebbe stato qualcosa
ma non fu mai nulla oltre l’ozio
e il cinico balbettare perditempo
delle ore in questo strazio
di silenzi a stracci
e un cuore bianco che s’immola,
lacero,

già destino strabico
nella bocca, già ultimo
questo participio a gamba tesa.
che m’inciampa
precipitando le solite scale
e un nulla qualunque

ché ci sarebbe stato
e non fu mai.

Ché poi arriva l'equinozio delle rondini

Musica di Einaudi

Ché poi è un mistero, lo stupore

di come non si smette mai di nascere

eppure grembi di madri si fanno gomiti di spazio

nel ventre dell’aria e pochi altri spiccioli

 

fame d’ossa – per esempio –

quella che langue, deserta,

tra un’unghia e la spina dorsale

 

come se l’avorio

o due particelle miserrime di idrogeno

potessero fare la differenza!

 

Ora, si pensi all’equinozio delle rondini

che anche se s’attardano talvolta,

è vero che poi arrivano.

e lo fanno sempre

anche se hai i capelli corti

e corri dietro ai fazzoletti bianchi.

 

Anche se hai le dita contate

per mangiucchiare la fame d’amore

loro arrivano

e quasi ridono sotto l’ala.

 

Ché poi ti prende un sonno

che non sai più che pesci pigliare

e nuoti l’aria in mare aperto

senza la maschera

con il cloro negli occhi

che ti cieca.

 

Ché poi muori

– povero sostantivo solo

senza ossigeno –