Impalcature castane e barcollanti

dissentivo

– per lo più annerendomi –

le pareti spesse

quadrilocale esterno corpo che mi abita

e le sue castane impalcature

d’orizzontale cielostagno

contro,

 

ed asserivo che

– se avessi anche solo predetto

rosse, le increspature della pelle –

forse, dico forse,

avrei arrestato il grilletto

uno sparo prima, appena

di quel dissesto

d’anima

 

che ancora mi deserta

– incagliato –

due dita a sinistra del cuore

 

Un quasi Degas sulla parete

ottoni di riguardo

sulle geografie rattoppate

dei muri

dove un quasi Degas

sgambettava tulle

sul transito arrabbiato

di un bicchiere

 

costato tre costole di un sorriso

su labbra incrinate

e pieno per quel solo

che bastava

a farne due lacrime di buio

sull’intonaco bianco

.bianco

 

impronta d’ali ansimate

sulla neve che non scolora

C'è un Degas sulle cicatrici delle mie labbra

(non mi convinceva la precedente versione … )

 

Cicatrici di vetro

queste labbra

come di Degas

le ballerine leziose

ottoni di riguardo

sulle geografie rattoppate

dei muri

 

Ancora vedo

il transito arrabbiato, contro

di quel bicchiere,

appena due lacrime di buio

sull’intonaco bianco

.bianco

 

E l’inesorabile

ritorno di vetri

costato tre costole

al mio sorriso

impronta d’ali ansimate

sulla neve che non scolora

Ninnanannami

Mi sbadiglia il profilo un respiro avventato
a malapena buio d’iride, vedo
vedo tracce di persiane spiare la poco più che ombra,
vedo buio
e basta

– non escludo parentesi aperte
nella stanza –

E tu, tracciami in coordinate sul cuore e
ninnanannami,
fallo adesso spingendo voli di viole stinte
su per le pareti e quadri che non dicono
domani.

E poi, dimmi se li vedi questi fiori imbalsamati
sentinelle sulle tegole assonnate
sogno dispari di petali
e m’ama non m’ama

– un solo sorso d’acqua per favore
(per favore) –

che non hai mai visto sete
e sono sabbia sdraiata e maledetta
ed intorno
solo
sole
sola
.io

Anestetiche Divagazioni

E’ andata via tutta la gente, tutta

sono rimasta io

e il qui dentro di nuvole rosse

che dicono cielo

 

a parlare con le labbra ferme

alle mie labbra

labbra che non so perché

perché non lo so se sono io

queste labbra

 

e vorrei tanto averle buone

per le parole

quelle che non parlo

quelle che affusolo nelle guance

respirando le apnee

che funambolo ogni volta

ogni volta

 

Anestetiche divagazioni di me

geografie abusate

che sento di non condividere, vorrei

 

vorrei potermi dormire accanto

e non sapermi altra

vorrei poter rispondere

ogni tanto

Ho sognato di dormire senza occhi

Ho gli occhi

come di lucciola assetata

rintocchi di luce che

non lascia ombra

e mi piglia una voce contralta

di assesto affrettato ed umido

sul ruvido del palato.

 

Come di amara la sete

sulle setole stese di seta

che scartavetrano le labbra.

 

Sarebbe un bel partire adesso:

nel mezzo di tante barche

la mia vuota

non lascerebbe alcuno offeso

sui deserti della battigia

 

Vorrei solo tremare di albe

remando le rugiade

appena fresche. Colte.

Fogli naufraghi su zattere di vino rosso

Avevano preso
una piega strana i miei fogli
come di ortogonale
distrazione di gomiti

probabilmente

traccia di una biro sfera media
che inscatola arcobaleni
tridimensionali
su zattere di vino rosso

sogno statico di un volo
sopra nuvole gialle di nicotina
da sentirmi barcollare la voce
in un singhiozzo

di dittonghi balbuzienti

tutto ingoiato

e non ho più avuto il fegato

di fermarmi.

Delirio metropolitano e poco altro

Che strane sono le sagome

che vanno e vengono per strada:
sembrano passarti accanto
ma è solo aria che si muove.
Nulla di più.

Vedono gli occhi eppure non sanno
delle ciglia rotte, né dei palmi alti alti

redenzione supplicate sotto tubi

di ossigeno metropolitano, stagnolo.

E si resta ardesie storpie
canalette d’acqua sotto grumi di pioggia
con il solito bagaglio di cose trapassate
sotto un braccio – uno qualsiasi –
indolenza svampita
da portarsi appresso, addosso.

Ho una piantagione di cotone fra l'aorta e la voce

ho una piantagione di cotone

costipata fra l’aorta e la voce

desolazione di un mezzosole assopito

punta di matita spezzata

 

tracimavo

compassi rotti di nuvole bianche

e venne la mattina dei girasoli alzati

fabriano A2 ruvidi ruvidi

 

proprio dove una casetta bianca

adombrava la bimba

scamiciato rosso e un sogno di lucciole

negli occhi scuri scuri  

 

e poco dietro

montagne appuntite – estranee –

come le dita sempre di troppo

o sempre troppo poche

per contare i mille anni nudi

di corteccia

dentro l’anima di quercia.

Se c'è un mese che non torna

Denti stretti a biasimarmi il sonno
mio cinico compendio
di poche ore imbalsamate
pellicole nerenere d’assenza.

Appena freddo
questo silenzio di carne, dentro
le volte che sei zenit
sulle mie radure di sabbia
e dal polistirolo di queste nuvole
nessuna neve, ancora,
a salvarmi il cuore.

Troveremo il modo
di pescare l’imperativo giusto
dalle onde col vento di febbraio in testa
e, lo so, lo stesso cielo
che s’avvilisce, vuoto, d’istanti

si farà ossigeno e valentino
– appena sarà giorno –
sulle nostre labbra.

Una primavera dietro le colline delle zingare

Non direi male del nulla
se non fosse che ci vive
nella bocca
adesso che levo vele di tende
a nastro
oltre la retorica delle
primavere inaudite
senza più congiuntivi
per sognare la pace
delle foglie. Ci pensavi?

Erano nostre,
eppure eravamo
imperfetti di rimmel
dietro le colline delle zingare
e mai che una perla
fosse al suo posto.

Ci credevi alle dita
che non abbiamo mai saputo?
Io si, ogni giorno
che ho suonato usci
pregando ventagli di porte
ad aprirsi e

finalmente
vento.

E' una fortuna fuggire da qui

è una fortuna che questi filari

righino dritti

fino alla fine della staccionata bianca

fino all’ultimo cancello di ferro

 

di ferro come le lingue arrotate

di ferro come le grate di un glicine

che sputa ombre e sabbia

 

è una fortuna

fuggire da qui

 

con la scusa sempre buona

della prima goccia di pioggia

(o di terra?)

che si fionda giù

a pesomorto

sempre e soltanto a guastare la festa

 

(anche se non è di certo una festa, questa..)

 

e quella donna, invece,

quella donna è rimasta

 

è rimasta a contare

tubi rotti

e gocce di novalgina

dal beccuccio otturato

nelle tempie della casa rotta

della cosa rotta

e diceva:

 

– è rotta la casa! –

 

con la lingua che scandagliava sillabe

dove nulla è rimasto

oltre la riga dritta dei capelli

a squarcio di pettine

 

e i denti

tutti giù per terra.

La trapezista stasera non vola

In questo vociare coriandoli
nessun cielo è il mio cielo
una tenda cucita e ricucita
scarti d’occorrenza
qui dove il solo riso che albergo
ha naso rosso e un pierrot per ogni guancia
due corde inquisite e magari lise
così da lasciarmi cadere
e nessun tappeto di gommapiuma
sotto il mio destino
ma diesis urlati precipitando
verticali corridoi
quattro facce di un cubo rotto
la mia vita
se è ieri il mio futuro.

Ma
chi lo dice
che non ha mai paura un trapezista?

Volo d’ombretto e piume
sarebbe il mio volo
e ripagato il solo soldo che costo

che valgo.

Miserere di sola andata

Miracolo di burro sui rami dell’inverno
foglie anoressiche tremano i passi
che vado all’indietro, non senza me

che mi dolgo e mi deserto
non volendo più sbadigliare a morsi
la fame di questi pomeriggi
di fretta, di fretta, di fretta

per sfuggirmi di mano
e biasimarmi arresa piega vinta
sul filo bisestile delle ore

quarzo che trabocco e metto via
ancora un altro sorso
e sarò ubriaca.

Una Venere da mille e una fuga

Venere
flette la fiamma
all’imbocco del ventre

non pressioni di dita
non lingue bagnate sul dorso
non braccia a redinarle i capelli

ché un imene rotto
non vale quasi mai
le doglie del parto
né la vertigine delle reni aperte
sul ciglio
ginocchia spalancate.

Involerebbe
la prima tangente pronta
piuttosto che rettifili finti
a raggio largo
ma il ferro fuso in opposizione
le trattiene il passo

E s’allarga in concentrica fuga d’iride
inghiottendo buchi neri
ripassati di saliva e dita ruvide

Venere
placenta nella placenta
e vuoti d’aria
in clessidre di veleno

Un solo gettone
per l’ultimo giro di luna.

Assalto alla Carovana – Interno Anima

Ecco il cielo, questo.

Vedi?

Fa prima a scomparire

se non fissi

falchi che scrutano

sopra.

 

E il tutto blu

si finge edera

e poi di occhi lavati

muore.

 

Come a dormire un sole

che ti brucia dentro

infeltrendo la lana bagnata

delle labbra.

 

Si può essere

più usignoli fratti

di così?

Grigiamara – Cenere di nuvole

Mi sorrido
mio pertinente lastricato stanco
bianco d’avorio stentato
per solo riflesso, rifratto

sorrisi tutti rammaricati
per quella volta in più
che poteva essere
ma le dune se le dimenticò il vento
ed era d’inverno

e furono volte convesse
assolate quel po’ che bastava
a lacrimare cenere di nuvole
il cielo

ed io grigiamara
sotto.

Tutto il resto è America

Le bandiere ostentano

l’ultimo strato di pelle rimasto

(scomposto)

unico diletto questo sapore

di sabbia sulla lingua

 

Per quanto poi

sia improbabile inseguirci

se manca la sete per piangere

ninnilli sotto lacrime di carillon

che non la smettono di

incantare.

  

Chè talvolta

sarebbe d’uopo

battezzare degno, l’attimo

e dileguarsi ragionevoli

anime vive

frenando(si)

un contraccolpo di ruggine e sangue

negli occhi.

 

Volendo di ognuno prendere

il danno raschiato in gola

e tutto il resto

è America.

In quel che di me

Musica "Carino" di New Flamenco

in quel giardino
che di giardino solo
si tratta
di tanta cellulosa
non è rimasta che carta
vuota

più ragione che sentimento
i petali e le cento foglie
a margine
sete di cielo rotto
in quel che di me
si impiccia in certe storie
quarte di copertina e
china
che non so leggere

ancora
a biasimarmi i vagiti
appena detti
se mi concepisco involucro
ogni volta
e ogni volta mi abortisco

blasfema isteria sono
a tratti pelle
e forse ossa.