Raccomandazioni

Il migliore dei casi
è una tavola da riassettare
dalle cose di ieri
ricordando di comprare lo zucchero
più tardi
ed anche il pane e le
sigarette. E raccomandare
a mio figlio
di non tenersi mai silenzi
sul cuore
e di mettersi la maglia di lana
d’inverno.

Io, la notte e tutte le notti, dopo

 Ci vuole coraggio per respirare
troppa neve sulle costole, quest’inverno
che se solo mi sapessi davvero
lo sentirei questo vento
che mi sciarpa le labbra, zitte

le mani tremano e mi adopero
quello che posso, le dita,
intendo una marea sfinita
questo lasciare che sia, altrove

Altrove le stelle bruciano
le ho toccate, era notte
e c’erano carri che volavano le nuvole
ci sono cieli che non mi sanno
eppure stanno sulla testa
e mille rumori da scordare
sembrano passi,

quelli che ho lasciato
bandiera bianca sulla spiaggia
e un maggio che piangeva
mi implorava di restare

ginocchia al petto e un angolo solo
per sudare camicie di buio
io, la notte e tutte le notti, dopo.

Ché poi arriva l'equinozio delle rondini

Ché poi è un mistero, lo stupore
di come non si smette mai di nascere
eppure grembi di madri si fanno gomiti di spazio
nel ventre dell’aria e pochi altri spiccioli

fame d’ossa – per esempio –
quella che langue, deserta,
tra un’unghia e la spina dorsale

come se l’avorio
o due particelle miserrime di idrogeno
potessero fare la differenza!

Ora, si pensi all’equinozio delle rondini
che anche se s’attardano talvolta,
è vero che poi arrivano.
e lo fanno sempre
anche se hai i capelli corti
e corri dietro ai fazzoletti bianchi.

Anche se hai le dita contate
per mangiucchiare la fame d’amore
loro arrivano
e quasi ridono sotto l’ala.

Ché poi ti prende un sonno
che non sai più che pesci pigliare
e nuoti l’aria in mare aperto
senza la maschera
con il cloro negli occhi
che ti cieca.

Ché poi resti
– povero sostantivo solo
senza ossigeno –

 

 

Un giorno che c'era amore

 

ci sarebbe stato,
forse un caso, un giorno
che c’era amore
non lo dimentico,
fra ventiquattrore di passaggio
e passeggio di tram
quanto è vera quest’aria
che barcollo
e il monossido sul cuore

ci sarebbe stato
a dirla tutta un vento, altro
che di tramontana sulle labbra
ce n’è sempre troppa
e ancora vele questi anni
che ci sarebbe stato qualcosa
ma non fu mai nulla oltre l’ozio
e il cinico balbettare perditempo
delle ore in questo strazio
di silenzi a stracci
e un cuore bianco che s’immola,
lacero,

già destino strabico
nella bocca, già ultimo
questo participio a gamba tesa.
che m’inciampa
precipitando le solite scale
e un nulla qualunque

ché ci sarebbe stato
e non fu mai.

Una telefonata all'una e mezza

TIC TAC TIC TAC
l’orologio batte l’una
niente di nuovo
ancora

TIC TAC TIC TAC
l’orologio batte l’una e mezza e
squilla il telefono

DRIN DRIN DRIN
non dovrebbero squillare mai i telefoni
la notte.

E invece
DRIN DRIN DRIN
qualcuno alza la cornetta
shhhhh
(silenzio in casa)

"Pronto? chi parla?"

"Casa bla bla bla? ecco
le sente le sirene?
non hanno ancora smesso di suonare
è stato un brutto impatto
molto brutto.
Devo dirle che
anche se non sente urlare più nessuno
c’è qualcuno che lo ha fatto di certo
non prima di mezz’ora fa.
Rincasava
ed è successo"

BHUM!

"E’ stato uno schianto come pochi.
Lo abbiamo trovato tutto accartocciato.
E sta a vedere che non potrò neanche dormire
stanotte – ahhhh! che vitaccia –

questi turni di notte li odio
– abbiamo dovuto persino pulire il marmo –
a proposito, è lì
se proprio vuole vederlo.
Lei è la madre, vero?"

(silenzio)

"Ma, mi sta ascoltando?"

TU TU TU TU TU TU.

(The end)

E' una fortuna fuggire da qui

è una fortuna che questi filari

righino dritti

fino alla fine della staccionata bianca

fino all’ultimo cancello di ferro

 

di ferro come le lingue arrotate

di ferro come le grate di un glicine

che sputa ombre e sabbia

 

è una fortuna

fuggire da qui

 

con la scusa sempre buona

della prima goccia di pioggia

(o di terra?)

che si fionda giù

a pesomorto

sempre e soltanto a guastare la festa

 

(anche se non è di certo una festa, questa..)

 

e quella donna, invece,

quella donna è rimasta

 

è rimasta a contare

tubi rotti

e gocce di novalgina

dal beccuccio otturato

nelle tempie della casa rotta

della cosa rotta

e diceva:

 

– è rotta la casa! –

 

con la lingua che scandagliava sillabe

dove nulla è rimasto

oltre la riga dritta dei capelli

a squarcio di pettine

 

e i denti

tutti giù per terra.

Una primavera dietro le colline delle zingare

Non direi male del nulla
se non fosse che ci vive
nella bocca
adesso che levo vele di tende
a nastro
oltre la retorica delle
primavere inaudite
senza più congiuntivi
per sognare la pace
delle foglie. Ci pensavi?

Erano nostre,
eppure eravamo
imperfetti di rimmel
dietro le colline delle zingare
e mai che una perla
fosse al suo posto.

Ci credevi alle dita
che non abbiamo mai saputo?
Io si, ogni giorno
che ho suonato usci
pregando ventagli di porte
ad aprirsi e

finalmente
vento.

Se c'è un mese che non torna

Denti stretti a biasimarmi il sonno
mio cinico compendio
di poche ore imbalsamate
pellicole nerenere d’assenza.

Appena freddo
questo silenzio di carne, dentro
le volte che sei zenit
sulle mie radure di sabbia
e dal polistirolo di queste nuvole
nessuna neve, ancora,
a salvarmi il cuore.

Troveremo il modo
di pescare l’imperativo giusto
dalle onde col vento di febbraio in testa
e, lo so, lo stesso cielo
che s’avvilisce, vuoto, d’istanti

si farà ossigeno e valentino
– appena sarà giorno –
sulle nostre labbra.

Ho una piantagione di cotone fra l'aorta e la voce

ho una piantagione di cotone

costipata fra l’aorta e la voce

desolazione di un mezzosole assopito

punta di matita spezzata

 

tracimavo

compassi rotti di nuvole bianche

e venne la mattina dei girasoli alzati

fabriano A2 ruvidi ruvidi

 

proprio dove una casetta bianca

adombrava la bimba

scamiciato rosso e un sogno di lucciole

negli occhi scuri scuri  

 

e poco dietro

montagne appuntite – estranee –

come le dita sempre di troppo

o sempre troppo poche

per contare i mille anni nudi

di corteccia

dentro l’anima di quercia.

Delirio metropolitano e poco altro

Che strane sono le sagome

che vanno e vengono per strada:
sembrano passarti accanto
ma è solo aria che si muove.
Nulla di più.

Vedono gli occhi eppure non sanno
delle ciglia rotte, né dei palmi alti alti

redenzione supplicate sotto tubi

di ossigeno metropolitano, stagnolo.

E si resta ardesie storpie
canalette d’acqua sotto grumi di pioggia
con il solito bagaglio di cose trapassate
sotto un braccio – uno qualsiasi –
indolenza svampita
da portarsi appresso, addosso.

Fogli naufraghi su zattere di vino rosso

Avevano preso
una piega strana i miei fogli
come di ortogonale
distrazione di gomiti

probabilmente

traccia di una biro sfera media
che inscatola arcobaleni
tridimensionali
su zattere di vino rosso

sogno statico di un volo
sopra nuvole gialle di nicotina
da sentirmi barcollare la voce
in un singhiozzo

di dittonghi balbuzienti

tutto ingoiato

e non ho più avuto il fegato

di fermarmi.

Ho sognato di dormire senza occhi

Ho gli occhi

come di lucciola assetata

rintocchi di luce che

non lascia ombra

e mi piglia una voce contralta

di assesto affrettato ed umido

sul ruvido del palato.

 

Come di amara la sete

sulle setole stese di seta

che scartavetrano le labbra.

 

Sarebbe un bel partire adesso:

nel mezzo di tante barche

la mia vuota

non lascerebbe alcuno offeso

sui deserti della battigia

 

Vorrei solo tremare di albe

remando le rugiade

appena fresche. Colte.

Anestetiche Divagazioni

E’ andata via tutta la gente, tutta

sono rimasta io

e il qui dentro di nuvole rosse

che dicono cielo

 

a parlare con le labbra ferme

alle mie labbra

labbra che non so perché

perché non lo so se sono io

queste labbra

 

e vorrei tanto averle buone

per le parole

quelle che non parlo

quelle che affusolo nelle guance

respirando le apnee

che funambolo ogni volta

ogni volta

 

Anestetiche divagazioni di me

geografie abusate

che sento di non condividere, vorrei

 

vorrei potermi dormire accanto

e non sapermi altra

vorrei poter rispondere

ogni tanto

Ninnanannami

Mi sbadiglia il profilo un respiro avventato
a malapena buio d’iride, vedo
vedo tracce di persiane spiare la poco più che ombra,
vedo buio
e basta

– non escludo parentesi aperte
nella stanza –

E tu, tracciami in coordinate sul cuore e
ninnanannami,
fallo adesso spingendo voli di viole stinte
su per le pareti e quadri che non dicono
domani.

E poi, dimmi se li vedi questi fiori imbalsamati
sentinelle sulle tegole assonnate
sogno dispari di petali
e m’ama non m’ama

– un solo sorso d’acqua per favore
(per favore) –

che non hai mai visto sete
e sono sabbia sdraiata e maledetta
ed intorno
solo
sole
sola
.io

C'è un Degas sulle cicatrici delle mie labbra

(non mi convinceva la precedente versione … )

 

Cicatrici di vetro

queste labbra

come di Degas

le ballerine leziose

ottoni di riguardo

sulle geografie rattoppate

dei muri

 

Ancora vedo

il transito arrabbiato, contro

di quel bicchiere,

appena due lacrime di buio

sull’intonaco bianco

.bianco

 

E l’inesorabile

ritorno di vetri

costato tre costole

al mio sorriso

impronta d’ali ansimate

sulla neve che non scolora

Un quasi Degas sulla parete

ottoni di riguardo

sulle geografie rattoppate

dei muri

dove un quasi Degas

sgambettava tulle

sul transito arrabbiato

di un bicchiere

 

costato tre costole di un sorriso

su labbra incrinate

e pieno per quel solo

che bastava

a farne due lacrime di buio

sull’intonaco bianco

.bianco

 

impronta d’ali ansimate

sulla neve che non scolora

Impalcature castane e barcollanti

dissentivo

– per lo più annerendomi –

le pareti spesse

quadrilocale esterno corpo che mi abita

e le sue castane impalcature

d’orizzontale cielostagno

contro,

 

ed asserivo che

– se avessi anche solo predetto

rosse, le increspature della pelle –

forse, dico forse,

avrei arrestato il grilletto

uno sparo prima, appena

di quel dissesto

d’anima

 

che ancora mi deserta

– incagliato –

due dita a sinistra del cuore

 

Imperfetto di circostanza

odore di imperfetto

il cielo è reciso

dalle mezzenuvole

che ostento

un corvo azzarda voli

di circostanza

 

e zittisce un compasso

sotto l’ala testarda

 

comprometto dell’avorio

fresco di nicotina

masterizzo un sorriso scalzo

e rovisto tra le vertebre

un altro passo, tanto per.

 

scongiurandomi ennesima

 

stavolta