Domus

domus

 

Ho costruito un quadrato
sull’ipotenusa della mia solitudine
la dimora perfetta per giocare
a battaglia navale con lo specchio

indovinare le coordinate del silenzio
e perdere sempre a tavolino
per colpa del casino che fa il cuore.
Anche quando ho gli occhi chiusi.

No frost

Il mio frigo è un tipo timido
ma accetta caramelle dagli sconosciuti.
Parla solo con la luce accesa
e tende a conservare tutto dentro,
chiuso negli inverni irrisolti del suo cuore

perché non vuole ancora ammettere
la paura che ha del buio.
E della fame.

da “Chernobylove – il giorno dopo il vento” – Kimerik 2010

Magritte

René Magritte, La Trahison des images (Il tradimento delle immagini)
René Magritte, La Trahison des images (Il tradimento delle immagini)

La tua bocca è un palcoscenico
ovvero, quel cielo non è il cielo
e quella vita non è la vita.
La tua bocca è un palcoscenico
quando il sipario è giù
e quella notte non è la mia notte
e quell’onda non è che
gomma pane sui miei sogni a matita

quanto è vero che sono ad un palmo di naso
le cose possibili. Ma non le tocco.

Adamo ancora nega

Ancora neghi che la terra sia rotonda
soltanto perché non vedi che il tuo passo
distante anni luce dall’orizzonte .
E a me non resta che osservare impotente
il tempo che impiega una fronte
a corrugarsi.

Una vetrina

Ho messo in vetrina
un sorriso che sta fermo e zoppo
sulle sue gambe. L’ho messo in vetrina
nella sua posa migliore, s’intende:
quella dalla quale si vede il mediterraneo. Tutto.

E qualcuno che si fermi e lo guardi, c’è sempre
e mai per acquistarlo – soltanto possederlo
per quel solo unico attimo.
Come è anche solito che qualcuno
non veda che una pozzanghera
di quando piove poco e male – fuliggine e indolenza.

L’ho messo in vetrina perché così
non barcolla più e, piuttosto che
continuamente precipitare nuvole
di incanto, piuttosto, piuttosto muore.

Ma non come qualcosa che dimentico.
Come qualcosa che ho perso.

HOUSE

Il luogo in cui mi appartengo
è una iena che guarda di traverso
qualcosa di infinito
in mezzo agli occhi. E ride.
Se la ride da matti.
Ride di me
che più di mentire spoglie
non posso altro. Non posso più.

Una fine più folle di un principio

Hanno tolto le tende in gran fretta
dopo quell’ultimo, esasperato, grido
nel centro esatto della notte: pensate
che cenerentola non aveva perso
ancora la scarpetta

Erano in cento
compreso i cani e la zingara
che predisse – cadranno
giù le torri e non saranno
di babele le lingue –

Penso che a quest’ora
abbiano già risalito il vento
per la rotta di un capello sciolto
e di sicuro i loro figli
avranno fatto testamento

Gli angeli eredi, stavolta,
ci penseranno bene
prima di piantare meli e biscie
e – chissa! – forse, l’eden
si chiamerà mondo.

Forse.

(Le solitudini di Aradollo – 2006)

 

ghiacciaRia

i gomiti sul tavolo
disegnano il vuoto preciso
di una solitudine: un cerchio chiuso
che a contenermi non mi basta

tutto resta fuori:
le mani,gli occhi,le gambe
e il cuore
come un buco d’amore
che mi annaspa
dentro

e niente è lasciato al caso
neanche l’arco semichiuso
di una porta aperta
e un po’ di luce dentro

ché dentro fa freddo!
lo vedo il ghiaccio sui vetri
quello che resta intorno al mio nome
scritto col dito.
dice: francesca
e poi tace

esattamente freddo come era prima

(Agosto 2007)

Tetris

tetris
Siamo carne e cervello
ognuno nella proporzione
che lo rende assolutamente unico.
L’anima, poi, è ciò che si incastra
più o meno dignitosamente
negli spazi rimasti irrisolti.

Genesi di una solitudine

C’era una volta la fame originale
su una tavola di bambola
tutta a quadretti
e vasi con i fiori annisettanta
rossi e gialli e verdi
che facevano la polvere
sulla solitudine

(la plastica non aveva neanche
il profumo di una cosa morta)

I miei occhi impararono a scrivere
lacrime a stampatello
sui quaderni col lucchetto
e mi salvava una luce di stella
convessa, caldissima
40 watt di carezze, ogni volta.

 

Una piastrella

Usura diagnosticata:
piastrella di ceramica
ventiperventi
stagionatura a caldo di almeno
una generazione in scatole
condominiali

e transumanza di margherite
povere povere
millenovecentosettantaquattro
suole di cuoio
recidive

Prescindo comunque
i passi singhiozzati in su e giù
ricalcando le geometrie arrabbiate
della voce e
l’insolente tramestio
delle sedie

e le volte
che notti di polemiche lampadine
precipitavano
in gravità metalliche
e cocci rotti
forever

e non ricordo
che nessuno avesse predetto
destino più inesorabile

troppo facile morire così
troppo.

Le fughe rotte non rimarginano

GHOST

Facevo le capriole al contrario
trattenendo tutti i respiri in gola
E mi inventavo anche silenzi
nuovi di zecca
per non invaderti le stanze
. piccola piccola e bianca .
che l’intonaco non si distingueva.

Io ero il muro e tu la mia distanza.

Sempre con gli occhi incollati, sempre
suoi tuoi.
Ma tu, non mi vedevi mai .
Una volta, addirittura
mi passasti attraverso, mentre
a p p a s s i v o s c u r a t a
nella tua indifferenza.

Irrimediabile

L’omino è stato chiaro
chiarissimo
le tapparelle, il muro,
l’intero vano che abita la mia fame
è andato.
Ha detto che può essere dipeso dall’usura,
il maneggio incauto di certe sere,
la notte stanca.
Ha anche avanzato ipotesi circa
la mancata manutenzione del vizio
Ma titubava un poco. Ti
tubava

E, sebbene non riesca ancora a
spiegarsi il come
di quei bagliori impercettibili
a ridosso della crepa madre
quella al centro
e l’assenza totale assenza
di macerie
sotto, l’omino è stato chiarissimo,
lo ha detto senza neanche ingoiare
una volta:
il sogno si è rotto

Così ha detto.
E non si rimedia.

Forever

E’ la solita questione
dei numeri periodici.
Quei numeri infinitamente
indefiniti
eppure razionali.
Di quelli che
ad ogni divisione
si prendono il resto e se
lo mettono sopra. Una barra
drittissima in testa
per dire che non finisce mai
non si finisce mai
di morire.

Una linea chiusa che si chiama amore

[..]
Qualcosa si apre . A dismisura .
Una gracilità pesante di voci e .
Ricordo un punto preciso dal quale partimmo .
Il primo a definire la linea .
Valigie di notti alle mani e .
La stazione aveva ancora luci stanche e .
Buio di sonno imbrunito a coprire vagoni vuoti e .
La mia testa sul vetro era il punto sul quale finivi .
Sesso e camicie scoperte nelle asole vuote .
Arrivando destinazioni incompiute .
Le ore sono punti distanti da unire .
Mancanze che il respiro riempie .
Di me e . Di te . Voci stanche la notte e .
La stella più lontana è il punto che ti cerco negli occhi .
Litri di caffè nero . La rabbia .
La notte è una sfera bucata e .
Non tardò a curvare stretto .
Chiudendo gomiti di punti accavallati .
Delle nostre voci che incastonavano silenzi .
Metallo duro e .
Il punto della situazione si fece scomodo improvvisamente .
Stretto . Necessità di altre asole per sostare i sospiri .
Allargando le cintole all’anima costretta .
Scatole di giorni ottusi e .
Caderci sempre allineati davanti . Io e te .
Una linea d’infiniti punti consecutivi .
Salvi dentro lo stesso ritorno del cuore e .
Di strade e .
Qualcosa si apre . A dismisura .
[..]

[rileggere daccapo. all’infinito]

Un pezzo di cielo per cinquanta centesimi

Era un mercato del sabato
in un mese senza il cappotto
e il vento non aveva i denti:
semplicemente bussava con le nocche storte
sulla punta del naso
e poi scappava via
come fanno i bambini ai citofoni

E dato che non piove più
se non per effetto
non riuscendo ormai più a respirare
ho comprato un pezzo di cielo
per cinquanta centesimi

Era su una bancarella
di quelle della roba usata
tra uno scialle piedipull
ed un jeans all’ultimo grido
e chiunque – dico chiunque –
poteva scambiarlo con
un semplice – banalissimo
niente.

Ma non di certo io
che conoscevo quelle nuvole come le mie tasche
vuote.

Da allora
ho un cielo tutto per me.
Pensate, quattro stagioni su quattro
ad un palmo dalla mia testa
io che non ho mai avuto
neanche la naftalina
per sedare i vizi
dell’aria.

E quando la luna cade
in quelle notti che è inverno
e l’ossigeno non regge neanche
un candela

ci dormo sopra.

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La mia bocca è una casa fragile
mattine di sogni smerigliati
scagliati contro un muro
che hanno lasciato il segno:
un’ombra per ogni giorno
di tutti i giorni, di tutti i santi.
Anche se vado di gomito, anche se vado
loro non vanno via.
Eppure, tutto il mio possibile
l’ho anche detto e fatto. L’ho fatto.
Ma quelle restano e incoraggiano il silenzio
più grandi di me, che non ho mai avuto l’età
giusta dei denti. E neanche la memoria.