ghiacciaRia

i gomiti sul tavolo
disegnano il vuoto preciso
di una solitudine: un cerchio chiuso
che a contenermi non mi basta

tutto resta fuori:
le mani,gli occhi,le gambe
e il cuore
come un buco d’amore
che mi annaspa
dentro

e niente è lasciato al caso
neanche l’arco semichiuso
di una porta aperta
e un po’ di luce dentro

ché dentro fa freddo!
lo vedo il ghiaccio sui vetri
quello che resta intorno al mio nome
scritto col dito.
dice: francesca
e poi tace

esattamente freddo come era prima

(Agosto 2007)

Genesi di una solitudine

C’era una volta la fame originale
su una tavola di bambola
tutta a quadretti
e vasi con i fiori annisettanta
rossi e gialli e verdi
che facevano la polvere
sulla solitudine

(la plastica non aveva neanche
il profumo di una cosa morta)

I miei occhi impararono a scrivere
lacrime a stampatello
sui quaderni col lucchetto
e mi salvava una luce di stella
convessa, caldissima
40 watt di carezze, ogni volta.

 

GHOST

Facevo le capriole al contrario
trattenendo tutti i respiri in gola
E mi inventavo anche silenzi
nuovi di zecca
per non invaderti le stanze
. piccola piccola e bianca .
che l’intonaco non si distingueva.

Io ero il muro e tu la mia distanza.

Sempre con gli occhi incollati, sempre
suoi tuoi.
Ma tu, non mi vedevi mai .
Una volta, addirittura
mi passasti attraverso, mentre
a p p a s s i v o s c u r a t a
nella tua indifferenza.

Irrimediabile

L’omino è stato chiaro
chiarissimo
le tapparelle, il muro,
l’intero vano che abita la mia fame
è andato.
Ha detto che può essere dipeso dall’usura,
il maneggio incauto di certe sere,
la notte stanca.
Ha anche avanzato ipotesi circa
la mancata manutenzione del vizio
Ma titubava un poco. Ti
tubava

E, sebbene non riesca ancora a
spiegarsi il come
di quei bagliori impercettibili
a ridosso della crepa madre
quella al centro
e l’assenza totale assenza
di macerie
sotto, l’omino è stato chiarissimo,
lo ha detto senza neanche ingoiare
una volta:
il sogno si è rotto

Così ha detto.
E non si rimedia.

Un pezzo di cielo per cinquanta centesimi

Era un mercato del sabato
in un mese senza il cappotto
e il vento non aveva i denti:
semplicemente bussava con le nocche storte
sulla punta del naso
e poi scappava via
come fanno i bambini ai citofoni

E dato che non piove più
se non per effetto
non riuscendo ormai più a respirare
ho comprato un pezzo di cielo
per cinquanta centesimi

Era su una bancarella
di quelle della roba usata
tra uno scialle piedipull
ed un jeans all’ultimo grido
e chiunque – dico chiunque –
poteva scambiarlo con
un semplice – banalissimo
niente.

Ma non di certo io
che conoscevo quelle nuvole come le mie tasche
vuote.

Da allora
ho un cielo tutto per me.
Pensate, quattro stagioni su quattro
ad un palmo dalla mia testa
io che non ho mai avuto
neanche la naftalina
per sedare i vizi
dell’aria.

E quando la luna cade
in quelle notti che è inverno
e l’ossigeno non regge neanche
un candela

ci dormo sopra.

Grrrr

Benedico silenzi continuamente, ormai,
Perché questo della parola,
alla fine,
è un lusso arrogante
il fine che non giustifica il mezzo
qualcosa che esplode
col beneficio di inventario. Ma resta. E
ingombra. E insana.
E se, ad un certo punto,
decidessi di ingoiare, persino
non voglio nessun indice a sparare.
Perché non uso bocca, è vero
Ma so ancora mordere.
E lo so fare persino molto bene.

Lavvestori

Edward Hopper Summer interior ( Interno d'estate ) 1909
Edward Hopper Summer interior ( Interno d’estate ) 1909

Mi presento: sono un portone
quella cosa che si apre quando si chiude una porta
e a Lui, al mio uomo, la sua porta l’ha cacciato a pedate di casa
e dice che è stata la sua fortuna
perché io non sono soltanto una porta come la sua ex,
ma un portone.

Ovviamente, quando dice così, io faccio l’amore molto meglio.

E dovete anche sapere che Lui mi parla spessissimo.
Mi parla di lei. Lei che faceva piagnistei continui
per cose che lui non capiva
e rompeva le palle ogni qualvolta Lui
era a giocare a calcetto coi suoi amici.

Invece io,
che sono un portone e non di certo una porta
non lo farò mai,
perché Lui è un uomo fortunato ad avere un portone come me
alla sua costola.

E quando dice così io faccio anche le capriole con la bocca
intorno al sesso
e dico sì, sempre di sì,

anche se ho veramente male alla testa
e al fegato.
Perché io, ve l’ho detto, no?
io sono il portone.

L'ora illegale

Orologi sciolti - Salvador Dalì
Orologi sciolti – Salvador Dalì

Hanno iniziato
portando avanti gli orologi
appena di un’ora. A pena.
L’alibi, è stato
il risparmio energetico.
Come se si trattasse di qualcosa
da gestire, ottimizzando.
Poi, hanno reso impossibili le ore
in una corsa di fegato e cuore.
Fegato e cuore. Al macello. Con un badge
per segnalare eventuali quanto
improbabili assenze.
Gli uteri, di conseguenza
sono quasi tutti impazziti
come le lancette nei pantaloni
dei maschi. E le Regole.

Riproduzioni

Questo mio saperti a memoria
non consente mai alla tua assenza
di palesarsi.
Così, mi tempero gli occhi,
vado di ricalco sul tratto
e, magicamente, diventi.
Anche quando ho solo forbici
dentro le mani.

Pi greco

I miei maschi sono cerchi concentrici
ognuno, un nome diverso
ma con la stessa identica faccia
di mio padre
che mi guarda e dice che è sempre poco
ciò che posso.

Cado sempre sullo stesso centro
perpendicolare e compiuta
quasi da dirmi in piedi

e distante un raggio più lungo
delle mie braccia.

Tutte le Lucciole vennero al pettine

 

Tutte le Lucciole vennero al pettineTutte le Lucciole vennero al pettine – Edit@ casa editrice e libraria

Prefazione di Mara Venuto
Premessa di Francesco Tomada
Copertina a cura di Piero Vinci Artista

Il libro è prenotabile su ibs a questo link

Tutte le Lucciole vennero al pettine

…………..

“I mille semi e le piccole luci di cui è fatta la vita si ricompongono per germinare altro, ancora. “Francesca Pellegrino cerca la Poesia nell’alveo dell’universalità di un momento e, ugualmente, in una visione corale di attimi che diventano Storia. E lo fa con “Parole che sanno, che sono”, parole nude e nitide, capaci di essere lame e bende allo stesso tempo, rifrazioni di identità e intenti, una costellazione di ParoleLucciole che teneva “ben nascoste in gola”, in grado di dire tutto ciò che serve, nulla più, nulla meno.”

Dalla introduzione di Mara Venuto

 

“Tutte le lucciole vennero al pettine rappresenta anche l’ammissione di una e tante sconfitte, di tutte le “cose urgenti che ieri / ho dimenticato di comprare / tornando a casa”, rappresenta anche la cronaca consapevole di una profonda disillusione; è una testimonianza cruda, ma non una resa. Allora è un libro che spaventa ma fa bene: fa bene perché, senza proporsi di dare insegnamenti, è l’esempio di come si possano chiamare per nome le proprie speranze anche quando diventano fantasmi, di come una persona riesca ad indossare la propria trasparenza con coraggio, ricomponendo i frammenti che sembravano perduti fino a potersi di nuovo appartenere.”

Dalla premessa di Francesco Tomada

 

Scintilla, Stella ed altre Lucciole sono le Millemé – le tutte luci che albergano il mio nome – la moltitudine che sono – che siamo. Le tutte sfaccettature che coesistono, sopravvivendo, cercando una pace per sé. Tutte le Lucciole vennero al pettine, rappresenta ciò che si sé resta nel rastrello della vita, quando il vento della quotidianità ci spinge nei tutti luoghi del mondo.
Francesca Pellegrino

Persino lo zero è un cerchio perfetto. E spaccato.

Per dirla tutta
e senza troppi fronzoli sulla coscienza
non mi aspetto più niente di niente.
Semplicemente mi muove
l’inerzia del vento di ieri
che ha pure piovuto
e lasciato i davanzali tutti infangati.
Compreso le soglie e i tappeti d’ingresso
con sotto la chiave
che non ha usato mai nessuno.
Ha finito con l’arrugginirsi anch’essa.
Stessa sorte che poi è toccata al mare
intorno alla mia solitudine.
E al mio anulare nudo.

Baratti

Quando il cielo la manda giù di brutto
ed è l’ora della fame
le persiane insonnoliscono
bestemmiando almeno un poco

e per strada capita di incontrare soltanto
chi vende gli ombrelli.

Un po’ come nel deserto, le iene
sciacalli ed avvoltoi.

Allo stesso modo e a quella stessa
e identica ora, ti incontrai
tu coi tuoi mille ombrelli
e io con la mia pioggiadentro.

Lo scambio fu fatto velocemente
come ogni urgenza che si rispetti
lasciandomi l’incombenza dell’arcobaleno
domani.

Fatti

E poi, niente. Accadde.
Un giorno come un altro che
la polemica alle poste era la stessa
del giorno prima.
Accadde
mentre facevano l’amore le zanzare dentro l’afa
i pesci muti vennero tutti a galla
i gatti smisero di mordersi le code
e io mi fermai ad un passo
dal sogno.
Soltanto, barcollando.
Leggermente.

vintage

Ogni cosa lascia intuire la verità
anche ad occhio nudo.
Così, con l’anima deforme e senza rimmel
osservo la perfetta geometria del riquadro
perpendicolare alle ceramiche sbeccate annisettanta
e l’indiscutibile profondità data dalle ombre
a confermare l’esistenza
dell’impossibile.

EXIT

 

Exit

l’omino incensurato non aveva gambe
non aveva occhi. senza naso.
batteva cassa ogni mese
un bastone, per l’amor di Dio,
per terra, tre volte
trecentoeuro di interessi
e conviene pagare sull’unghia pittata
rossa e notti bianche sul cuscino
pregando. ma non voleva finire.
di tagliare freddo, il vento
ci supera sempre di mezzo metro
e si volta ridendo. una iena che dorme
sul fianco destro non la smette di urlare.
non la smette.

allora, una madre.
una che non si arrende ma non parla.
un marito di la’ che aspetta nuvole
da cadere e novantesimo minuto. tutti zitti.
e cantava ninnananne come meglio poteva
lei, passi rotti e cicche da mendicare
dove i papà attendono cicogne e
la fame, da nascondere nei pugni.
una porta rotta
un altro buco da nascondere
dietro persiane abbassate
un esercito di figli
che la guerra non la smette di sfinire.
non la smette.

ed erano giardini di sete
una figlia che correva freddo di biciclette
gambette corte e un sogno di trecce
nei viali di sabbia che risaliva.
ed intanto qualcosa che cambia
la fa donna, nelle dita mangiate di sempre
sempre la stessa fame da disperare
troppo corte le dita per tirare funi
e sbagliare il tiro. ogni volta
piccole storie di una vita
una voce che non è la prima volta
che sputa. e neanche l’ultima
– non ho più un soldo bucato –
e la sete non la smette di appassire
non la smette.

(novembre 2007)